Un po' di storia: Ninì: storia, poesia e ......
 

                       

Come Ninì fa un buon vino!

Nasce in me la volontà di fare un opuscolo per ufficializzare la mia esperienza di come Ninì fa un buon vino.
La mia origine. Sono nato a Torre del Greco (NA) nel rione Cappella Bianchini, situato alle falde del Vesuvio, dalle famiglie Liguoro e Serpe; la prima discende dal ceppo familiare dei Sorrentino, detti localmente “i Ceci”. Antonio col fratello Aniello coltivavano e vinificavano i migliori vitigni della zona come aglianico, caprettone, catalanesca (originaria della Catalogna), in una grande quantità per poter fornire vino a tuta la zona Vesuviana e Napoletana atraverso un grande deposito situato nella zona cosiddetta “'a lava nova”. Le uva ed il vino venivano trasportate atraverso i grandi lagni perché non c'erano strade, con grandi carri chiamati «solche» trainati con tre cavalli. Dal deposito 'a lava nova alle altre zone il vino veniva trasportato e consegnato con piccole carrette all'epoca trainate da cavalli che erano gli unici mezzi di trasporto. Sono cresciuto con questa volontà di produrre vino attraverso uva coltivate e vinificate da me. I miei zii parlavano tanto di questa pianta da cui si traggono i grappoli di uva, la vite. Queste piante, che producevano uva di pregiata qualità, vennero attaccate tempo fa da una malattia dell'apparato radicale e seccavano. Era la fillossera. Furono portati avanti tanti studi per debellare questa malattia ma senza risultati. Un contadino che viveva in America portò a conoscenza dei miei zii che in America non avevano questo problema, perché utilizzavano delle piante di natura più selvatica, perciò denominate barbatelle, sulle quali innestavano poi le qualità di uva preferite. Così fu fatto anche a Torre del Greco. Per la riproduzione delle piante veniva prima utilizzato il sistema per talea lasciando un tralcio molto lungo che veniva sotterrato quasi per intero, lasciando, ad una certa distanza, le sole estremità fuori dal terreno per l'altezza di alcune gemme allo scopo di consentire la vegetazione e poi la riproduzione delle piante. Infatti il tralcio dopo un anno, massimo due, emetteva un autonomo apparato radicale che consentiva di staccare il nuovo esemplare dalla pianta madre della quale erano state sotterrate le talee.

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